Se mi guardo indietro, vedo un insieme di esperienze con un’origine che vale la pena tramandare.
Ogni tanto mi piace definirmi scherzosamente un figlio d’arte. Mio nonno ha fatto il mediatore immobiliare per 50 anni, e così mio padre.
Lo stesso brand Balic testimonia questo retaggio familiare: l’acronimo formato dal mio nome.
Io non sono ancora arrivato alle nozze d’oro con questa professione, dato che sono attivo nel settore immobiliare dal 1990, però l’ho respirata fin da giovane.
Ricordo quando avevo 15 o 16 anni e andavo nello studio di mio padre. L’ho assorbita insieme al legame paterno.
Penso che ciò abbia fatto anche la differenza su come percepisco il mestiere di agente immobiliare.
Non si tratta di un vestito che mi sono cucito addosso e che posso agevolmente togliermi la sera.
È qualcosa che tanto tempo fa è entrato sottopelle ed è diventato la mia più grande passione. Tant’è che non riesco a vedermi in una professione che non sia questa.
È una grande sfida da affrontare a viso aperto: fare in modo che due persone si mettano d’accordo quando di mezzo c’è il passaggio di proprietà di una casa, con tutto l’aspetto economico e lo stato emotivo delle parti da considerare.
Fare da mediatore immobiliare vuol dire mettersi nei panni degli altri, impegnarsi a decifrare che cosa provano acquirente e venditore e riuscire a gestire questi stati emozionali, portando soluzioni concrete prima, durante e anche dopo la trattativa.
Significa che ogni mio cliente sa di avere per davvero qualcuno a cui rivolgersi, un professionista che unisce il lato tecnico e burocratico dell’incarico all’aspetto umano ed empatico.